giovedì 11 luglio 2013

L'uomo che amava i libri

Tlin, tlin, tlin. 
Il suono.
Alzo lo sguardo, sfodero un sorriso e saluto con un gioviale « buongiorno! » . 
Mi alzo, gli vado incontro, lo accompagno, lo consiglio, lo servo e lo lascio al suo silenzio. Insomma, faccio il mio dovere. 
E’ una biblioteca grande, questa, abbastanza grande da aver bisogno dell’aiuto di un commesso, e tuttavia abbastanza piccola da conservare l’intima familiarità dell’ambiente conosciuto.

Tlin, tlin, tlin.

Il rumore della porta che si apre, mi annuncia sempre quando devo lavorare. E’ comodo, perché permette ai miei occhi di fare altro. Come leggere, ad esempio. 
Cosa volete che faccia, in una biblioteca? E’ l’unico aspetto positivo di questo lavoro: ho una quantità spropositata di libri a disposizione.
Altrimenti, sarebbe il lavoro più noioso del mondo: non posso parlare, perché disturberei il silenzio religioso che vi regna all’interno, devo ascoltare per ore i balbettii di gente che entra non sapendo neanche il nome del libro che deve cercare, devo guardarli mentre si frugano nelle tasche, alla ricerca del famigerato bigliettino su cui hanno scritto il titolo per non dimenticarlo. E che ovviamente hanno perso.
E quindi buttare tempo prezioso della mia vita nel cercare di capire quale diavolo di libro stiano cercando. 
La maggior parte delle persone che viene qui non lo fa per diletto. Spesso sono studenti costretti a leggere libri messi fuori commercio dai tempi della giovinezza dei loro professori, o professionisti che cercano informazioni su un aggiornamento, una ricerca, un seminario… Sono pochi, veramente pochi, quelli che vengono qui solamente per leggere.
Da quando lavoro qui, a dire la verità, soltanto uno. 
E’ lui, Il Lettore, come mi piace chiamarlo.
Viene tutti i giorni, la mattina presto, alle nove.

Tlin, tlin, tlin.

E non alzo lo sguardo sulla porta: lo alzo sull’orologio. Se sono le nove, so che è lui. 
Se sono le nove, ed è lui ad essere entrato, posso continuare a leggere – lui non chiede mai informazioni.
Entra, gira tra gli scaffali per qualche minuto, sceglie un libro, si siede e legge.
Legge tutto il giorno.
Non credo lavori. Se lavorasse non potrebbe stare qui tutti i giorni a leggere libri per tutto il giorno.
Forse è ricco – ma se fosse ricco che necessità avrebbe di venire in una biblioteca pubblica? Ne avrebbe una privata, grande, enorme, con quei libri rari. Sarebbe uno di quei filantropi che alla sua morte donerebbe i suoi libri ad una scuola, ad un ospedale, ad una biblioteca, magari più grande di questa… li rimetterebbe al servizio dell’umanità, insomma.
Sarebbe qualcosa del genere, se fosse ricco.
No, non penso sia ricco. Non ne ha l’atteggiamento.
Ma è un tipo strano, neanche mangia.

Tlin, tlin, tlin.

Alzo lo sguardo, perché non sono le nove. Un altro cliente. Si guarda intorno spaesato, confuso, ed io sospiro: un altro per il quale è probabilmente la prima volta che mette piede in una biblioteca.
« Buongiorno! » dico, e mi avvicino sfoderando il più accattivante dei miei sorrisi.
Quello mi squadra, chiedendosi per un attimo chi diavolo io sia. Decido di aiutarlo.
« Posso aiutarla, signore? » Attendo con pazienza che l’espressione attonita scompaia dal volto del mio cliente. Sembra capire: il volto gli si illumina, e si avvicina a me con fare cospiratorio, infilando una mano in tasca. Dio, un altro che non sa cosa gli serve…
« Dunque, mi servirebbe… » 
A tutti noi servirebbero molte cose, vorrei rispondere. Ma attendo educatamente che l’uomo riesca a decifrare la scrittura di, probabilmente, suo figlio.
Si infila frettolosamente gli occhiali da presbite sul naso adunco, aggrottando le sopracciglia ed allontanando lentamente il foglietto dagli occhi, quasi stesse osservando uno di quegli stereogrammi, quelle figure che se fissate a lungo sembrano uscire dal foglio.
« Dunque, mi servirebbe… » Lancio una breve occhiata all’orologio: tre minuti e 45 secondi, 46 secondi, 47 secondi…
« Mi servirebbe “Germi in aula” di un certo… Zola. Come il calciatore. » Alzo gli occhi al cielo, quasi sopraffatto dallo sconforto.
« Signore, forse intende Germinale, di Emile Zola. »
« Sì, penso di si. » Aggrotta ancora le sopracciglia, fissando il foglietto come se quello gli avesse tirato un brutto scherzo. Io le sopracciglia invece le alzo, trattenendo a stento un sorriso. Forse se ne accorge, perché mi guarda leggermente irritato.
« Serve altro? »
« Si… Il ricatto… il ri… Senta, legga lei. » dice, porgendomi stizzito il foglietto. Leggo. “Il ritratto di Dorian Gray, Oscar Wilde”. Fortunatamente non c’è nessun calciatore che io conosca che si chiami “Wilde”.
Mi inoltro nei corridoi, seguito a ruota dal Finanziere – ho la mania di dare soprannomi a tutti quelli che passano – e non riesco a trattenermi dal gettare uno sguardo frettoloso a Il Lettore, che sembra totalmente e beatamente ignaro della scena di degrado culturale che è appena avvenuta a pochi metri da lui.
Prendo i libri, uno dallo scaffale W ed uno dallo scaffale Z, e li porgo al Finanziere.
« Ecco qua, signore. Germinale di Emile Zola e Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. »
Penso che abbia percepito il mio tono di voce vagamente canzonatorio, perché mi guarda male ed il tono di voce è brusco quando mi lascia i suoi dati. Ah, beata mezza età.  Io, dopotutto, so essere davvero antipatico quando voglio.
Torno al mio posto che è quasi orario di chiusura. Il Lettore se ne è andato, come sempre, silenziosamente.


*

Sono le otto e mezza. Mezz’ora. 
Mezz’ora ed Il Lettore entrerà da quella porta, saluterà con un cenno del capo, sparirà tra gli scaffali per qualche minuto, tornerà, si siederà sulla solita poltrona e leggerà. Tutto il giorno.
Se non fosse che anche gli altri lo vedono, giurerei che sia solo una mia allucinazione. Una specie di amico immaginario, creato per tenermi compagnia… Ma anche L’Ordinatore lo vede.
« Eih, Ord! »
« Che c’è? E piantala di chiamarmi Ord, per l’amor del cielo! » Mi risponde L’Ordinatore, sistemando i nuovi arrivi sullo scaffale. Ignoro la sua ultima richiesta.
« Secondo te verrà anche oggi Il Lettore? »
L’Ordinatore sbuffa: pensa che la mia sia una specie di ossessione: forse ha ragione, ma lui non rimane qui tutto il giorno, non lo vede sedersi alle 9.10 e rialzarsi alle 19.15 – non ha idea di quanto possa essere inquietante una cosa del genere.
« Certo che verrà. Non hai notato che non manca un appuntamento? Secondo me è fuori di testa. »
Non rispondo. Fuori di testa o meno, secondo me è affascinante. Voglio dire, lui stesso sembra il personaggio di un libro, no? Magari semplicemente non può smettere di leggere perché…

Tlin, tlin, tlin.

Guardo l’orologio. Le 9.00. 
« Buongiorno! »
Un cenno con la testa, ed il lettore viene inghiottito dal labirinto di carta che lo circonda. Vorrei seguirlo, vedere su quali libri si sofferma il suo sguardo e con quale criterio sceglie poi quello che leggerà. Vorrei chiedergli se ha una famiglia, se mangia, se lavora di notte, se fa… qualcos’altro, oltre leggere. 
Ma non ho il coraggio. 
Primo perché da quando viene qui – ovvero almeno da quando ho iniziato a lavorarci io – non gli ho sentito dire una parola. Quasi mi dispiacerebbe rompere il suo silenzio.
Secondo, L’Ordinatore potrebbe avere ragione: potrebbe essere fuori di testa. Anzi, sicuramente lo è, ma non so se in senso buono o cattivo.
Il Lettore torna, in mano ha “Il vecchio e il mare” di Hemingway. 
Non ho mai finito un libro di Hemingway, io. Forse perché né la caccia, né la pesca, né la corrida, né l’alcol mi sono mai risultati argomenti particolarmente attraenti. Era lo scrittore preferito di mio nonno, invece. Lui, guarda caso, beveva, cacciava e andava a pesca. In effetti gli mancava solo la passione per la corrida, ma sono sicuro che se fosse nato in Spagna avrebbe avuto anche quella. 
Ad ogni modo anche Il Lettore sembra apprezzare. Quel che è certo è che divora pagina dopo pagina con una costanza invidiabile. Non lo vedo mai alzare lo sguardo dal libro, neanche per stiracchiarsi un attimo. Legge e gira pagina. Legge e gira pagina. Così, per ore.
In questa strana giornata di quiete, trovo il tempo per osservarlo: è un uomo dall’età indecifrabile, né troppo giovane né troppo vecchio.
Potrei dargli trent’anni, correggermi pochi secondi dopo e dargliene cinquanta per poi pensare che forse in realtà sono quaranta.
Indossa un completo da uomo, grigio, modesto, poco vistoso, estremamente normale. Il viso, anche quello, è normale. Un uomo assolutamente ordinario, se non fosse per le sue abitudini.

Tlin, tlin, tlin.

Guardo la porta: una bella ragazza, finalmente!
« Mi scusi, è questo il sexy shop? »
Non rispondo e mi limito ad allargare le braccia, cercando di ignorare la cocente delusione che è divampata nel mio petto. La ragazza si guarda intorno, modella le labbra in un “oh” di sorpresa, ed esce.
Mi volto verso Il Lettore. Niente. Neanche un sorriso. Totalmente immerso nel suo libro.
Alle 19.15, Il Lettore, chiude L’uomo e il mare e se ne va.


*

« Ma che ti prende, oggi? » 
L’Adescatrice mi guarda sconcertata, senza capire la mia agitazione. E’ circa mezz’ora che guardo continuamente l’orologio, affacciandomi di quando in quando alla porta che dà sulla strada.
Sono le 9.30, ed Il Lettore non è ancora arrivato.
« Non arriva. » Le dico.
« Ma chi? »
« Il Lettore, quello che arriva alle nove e se ne va un quarto d’ora prima della chiusura. Quello che rimane qui tutto il giorno. » dico, tornando a guardare fuori dalla porta. Niente.
« E allora? »
« E allora è quasi un anno che lavoro qui e non è mai mancato. Perché non arriva? »
L’Adescatrice mi guarda con uno dei suoi sorrisi maliziosi, causa del suo soprannome.
« Sei gay, forse? Sei innamorato di Ludwig. »
« Di chi? » chiedo distrattamente.
« Cielo, sei innamorato e neanche conosci il suo nome? »
« Non sono gay. » smentisco, « Si chiama Ludwig? Come fai a saperlo? »
Altro sorriso malizioso.
« Gliel’ho chiesto… Era così… misteriosamente affascinante. Bah, vedrai che tornerà. Io vado, torno dopo pranzo. »
La saluto distrattamente, fissando la poltrona sulla quale dovrebbe essere seduto Ludwig.
Mi appare stranamente incompleta.


*

Non è arrivato neanche oggi. Sono tre giorni che non si fa vedere e questa biblioteca sta perdendo per me ogni attrattiva.
Non alzo più la testa al suono della porta che si apre. Aspetto che siano i clienti a chiedere il mio aiuto.
E’ un atteggiamento sciocco, lo so, terribilmente infantile. Ma mi sembra che senza Il Lettore questa biblioteca abbia perso la sua aura magica: ora è solo una biblioteca come le altre e l’odore di stantio mi colpisce più forte che mai.


*

Sabato. L’ultima volta che ha varcato quella soglia è stato Sabato, esattamente una settimana fa.
L’Ordinatore mi guarda e scuote la testa.
« Magari ha trovato qualcosa di meglio da fare. Magari ha trovato una donna… » dice, dandomi una pacca sulla spalla. Lo sento sogghignare, so che credono tutti che io stia esagerando.
« Non smetterebbe di leggere per una donna. » dico, totalmente sconfortato.
L’Ordinatore mi guarda, tra lo scettico e il preoccupato.
« Dici? Tu cosa preferiresti, Ric, farti la tua donna o leggere? »
Ric. Mi ha chiamato Ric. Il Ricevitore, sarebbe. Gli sorrido.
« Cosa c’entra, Ord. Io mangiavo anche. Lui no. »
« Ma cosa ne sai! Faceva colazione prima di arrivare e cenava quando tornava a casa. Semplicemente non pranzava. Non conosci nessun altro che salta spesso il pranzo? »
« Non per leggere. »
« Amico, sei pazzo. Dai retta a me, lascia perdere questa storia e ricomincia a fare il tuo lavoro di Ricevitore, che ti riesce bene. »
« A lui non serviva, un Ricevitore. Sapeva sempre dove andare. »
L’Ordinatore scuote la testa, rassegnato, e torna a sistemare i nuovi arrivi. Per un po’ cala il silenzio, all’interno della biblioteca. 
Quel silenzio che dovrebbe esserci sempre e che noi, troppo spesso, rompiamo.
Domani sarà Domenica, giorno di riposo, finalmente. Credo che presto darò le mie dimissioni. Andrò a fare il gelataio. Probabilmente lì nessuno chiamerà mai la “fragola” “fregola” o il “limone” “piumone”. Non dovrò far finta di non accorgermi delle bestialità che spara la gente.
Vorrei cercarlo, in realtà. Sapere che fine ha fatto. Ma non so nulla di lui, a parte un nome improbabile ed una descrizione che riuscirebbe alquanto incerta. “Un uomo normale, vestito normalmente, più o meno tra i trenta e i cinquant’anni.”
Capireste di chi sto parlando, voi?


*
Tlin, tlin, tlin.
Non alzo lo sguardo e aspetto l’ormai consueto “mi scusi?” di qualche povero sprovveduto. E’ Lunedì e penso che sarà il mio ultimo giorno di lavoro, in questo posto.
Aspetto, ma non sento nessun “mi scusi?”.
Mi guardo intorno e non vedo nessuno.
Guardo l’orologio, e per poco non svengo.
Sono le 9.00. Spaccate, precise al millimetro. So già che alle 9.10 Ludwig spunterà da quel corridoio e si siederà su quella poltrona. Rimango in attesa, i nervi tesi fino allo spasimo, cosciente che potrei anche avere una delle più grandi delusioni della mia vita.
Ma no, il fato è magnanimo. Ludwig spunta dal corridoio e si siede sulla poltrona, tra le mani “L’amore ai tempi del colera” di Gabriel Garcia Marquez.
No, no, no. Non posso lasciarla passare così, questa.
Mi alzo.
« Mi scusi se la disturbo, signore… » La voce mi esce flebile, impacciata. Mi accorgo che sto arrossendo come un cretino. Ludwig alza lo sguardo su di me, e mi accorgo per la prima volta che i suoi occhi sono di un limpido azzurro cielo. Mi rivolge un sorriso sereno, stirando le sue labbra fine.
« Nessun disturbo, mi dica pure. » Ha una voce comune, lui. Normale. E’ gentile, modulata, quasi carezzevole. Un modo di parlare accorto ed educato, così fuori moda in questa epoca. Nessun accento, nessuna inflessione. 
« Lei… lei sta bene? » Ma che razza di domanda idiota! Devo essermi bevuto il cervello. Il Lettore, tuttavia, sembra capire – non risponde, ma mi guarda a lungo. Sospira, e chiude il libro. Mi rivolge uno strano sorriso consapevole.
« Si è chiesto che fine avessi fatto, non è vero? »
Annuisco, lentamente. Lascio intendere che mi piacerebbe, effettivamente, saperlo.
« La mia è una storia singolare: potrebbe non crederci, darmi del pazzo. Come faccio a sapere se posso fidarmi di lei? »
« Io adoro le storie singolari. »
Devo averlo detto in modo convincente, perché è il turno di Ludwig, di annuire.
« Lei perché legge, signor Catcher? »
Non gli chiedo come fa a sapere il mio nome, mi limito a rispondere.
« Perché… è un po’ come fuggire dalla realtà. Quando leggo entro in un’altra dimensione, non penso a… quello che mi aspetta, al futuro, ai problemi. Vivo la storia che leggo. »
Mi sembra quasi di essere tornato a scuola. Ho paura di dare la risposta sbagliata – ho paura perché penso che se do la risposta sbagliata, Ludwig non mi racconterà la sua storia.
Lui, tuttavia, annuisce.
« Io, signor Catcher, non ricordo un momento della mia vita in cui non ho letto. Il mio primo ricordo è il mio primo libro. La mia vita non è stata altro che un continuo succedersi di avventure non mie, un continuo cambiare personalità, passioni, ideali, io, in poche parole, non sono altro che un mucchio di personaggi. »
Lo guardo senza capire. Ha passato la sua vita a leggere?
« Sono, in qualche modo, costretto dalla mia stessa natura a leggere. I libri sono per me quella che è per voi la realtà. Qualcosa che accade tutti i giorni, qualcosa che permea la mia vita. 
Non c’è evasione se si è costantemente intrappolati in qualcosa. »
Lo guardo a bocca aperta. Poi, finalmente, riesco a dire qualcosa.
« Ma… allora, la settimana che non è venuto… »
« Quella è stata la mia evasione. Una settimana all’anno smetto di leggere e vivo la mia vita, la vita di Ludwig. Non la vita di Zeno Cosini, non la vita di Aureliano Buendìa, né quella di Julien Sorèl, ma semplicemente la vita di Ludwig Bookman. 
Quella settimana è la mia evasione, il corrispettivo del suo libro, signor Catcher. »
Mi gratto la guancia, riflettendo sulle sue parole. Mi sorge, spontanea, un’obiezione.
« Ma è assurdo, voglio dire… Io posso decidere quando voglio leggere. Posso terminare anche in questo momento la nostra conversazione ed iniziare a leggere. Non leggo un libro l’anno, ne leggo molti di più… Perché lei può vivere solo una settimana?»
Il sorriso che mi rivolge, mi lascia un po’ stupito. E’ un sorriso estremamente compassionevole, me ne accorgo subito.
«Ah, signor Catcher…  Un giorno le racconterò di più. Vedrà, sarà una storia che le piacerà. Le piacerà tanto che avrà voglia di scriverci su un libro.»

Riabbassa lo sguardo sulle pagine, Ludwig. Io non esisto più. Ora, tra le parole, vive.


2 commenti:

Anonimo ha detto...

E' tenero, Ludwig.
Vien vioglia di coccolarlo, ed anche di essere coccolati da lui.
E' ciò che siamo in un angolino del nostro cuore, o dei nostri ricordi.
E' il nostro papà troppo occupato, é il nostro angelo custode. E' la bambina che siede in noi accanto all'adulta.
E' il nonno che può raccontrarci le nostre radici aiutandoci a capirle. Ed accettarle.

E lo fa con il suo approccio alla vita. Con i libri. Quei libri che sono fantasia, a volte e - a volte - cose vere. Fantasia e verità che in Ludwig si sono divertite ad invertire lì'ordine naturale delle cose.
Però é sereno. Trasmette pace, a me, Ludwig.

Un racconto avvincente e fuori dal tempo (sei stata ben attenta a non introdurre elementi "moderni"; potrebbe essere in qualsiasi decennio pre - internet, no?).

Io so chi é il mio Ludwig. Chissà chi é il tuo...

(natina)

FreelyFreeMind ha detto...

Grazie per le tue belle parole, Nata :)