venerdì 26 luglio 2013

Sono nessuno.

Non sono nessuno e me ne farò una ragione.
Ho perdonato bugie come nessun altro avrebbe fatto, ho messo da parte tanto di me da dimenticarmi a volte in un angolo, ma non sono nessuno e me ne farò una ragione.
Sono stata un'ombra, ho pianto in silenzio tra le lenzuola ascoltando il rumore di una doccia aperta apposta per non farmi sentire telefonate che mi avrebbero soltanto ferita, ho passato notti insonni in letti più vuoti di quello che potevo sopportare, ma non sono nessuno e me ne farò una ragione.
Ho messo da parte il mio presente per pensare al tuo futuro, ma non sono nessuno e me ne farò una ragione.
Ho allontanato persone e preso le tue parti fino a litigi furibondi ogni volta che è servito, ma non sono nessuno e me ne farò una ragione.
Ho aspettato mesi e mesi per vederti, uno, due, tre, una volta quattro, ho passato ore e ore in treno, mi sono svegliata tante volte all'alba e tante volte ho visto il sole nascere e gli ho chiesto di portarmi da te, ma non sono nessuno e me ne farò una ragione.
Ho cancellato dubbi dalla mia mente, ho aspettato che si realizzassero promesse che non si sono mai realizzate, ti ho amato senza essere amata, mi sono fidata ciecamente di te senza che tu ti fidassi di me, ma ho fatto tutto questo con gioia per il tuo sorriso, per le tue carezze, perché mi rendeva felice farti felice, perché era bello vedere il tuo volermi bene crescere ogni giorno un poco di più, perché era bello camminare insieme.
Ma non sono nessuno e me ne farò una ragione.

fanculo

Non capisco perché quando una cosa va' storta deve andare storto anche tutto il resto. Piangere istericamente non risolve nulla, ma scarica molto.

E saper bene cosa significa sperare.

giovedì 25 luglio 2013

Braccio di ferro.

Io dicevo scatola e tu capivi scatola, dicevo sedia e capivi sedia, parlavamo la stessa lingua o forse anche non parlandola avevamo desiderio di capirci.
Adesso sembriamo non capire più nulla. Leggi accuse dove non esistono. Un giudizio dove c'è un punto di domanda.
Ed io adesso voglio capire quello che c'è oltre le parole. Perché a volte si dice sedia, ma si intende tavolo, e a volte nemmeno si sa cosa si intende. Altre volte si dice scatola, senza sapere cosa metterci dentro. Potrei come ogni volta camminarti incontro. Gettare alle ortiche le mie ragioni inascoltate, rassegnarmi sul fatto che rimarranno tali, come tante altre volte. Potremmo coprire ancora una volta tutto di parole, potrei chiederti ancora scusa senza ricevere lo stesso in cambio. Potresti soffermarti ancora una volta solo sulle mie azioni, sulle mie parole, senza chiederti da dove arrivino, senza chiederti perché arrivino. Preoccuparti soltanto della tua anima ferita, senza pensare alla mia nemmeno un istante. Potremmo fare così, come è stato sempre. Tu manterresti intatto il tuo orgoglio, io lo calpesterei ancora, accumulando altra rabbia.
Potremmo, ma ho deciso di giocare un gioco diverso questa volta. Non farò nulla di tutto ciò, non getterò alle ortiche le mie ragioni, non mi rassegnerò a vederle inascoltate, non ti chiederò scusa se la cosa non sarà reciproca. Muoio ogni giorno aspettando, senza sapere chi sei davvero, ma è quello che farò. Ti ho aspettato tanto, all'inizio, aspetterò anche questa volta. Sembra un braccio di ferro e forse lo è. Se perdo ti perdo. Ma se non gioco ti perdo lo stesso. 
Voglio capire davvero quanto valgo per te. Oltre le facili parole. Voglio capire se vedi anche me, oltre te stesso. Se mi vedi davvero, o se mi guardi soltanto.

mercoledì 24 luglio 2013

Un racconto.


Ho una spina proprio qui, tra le dita. Non riesco a toglierla da sola, serviresti tu. Ma tu, tutto intento a guardare il sole tramontare, non ti sei accorto di nulla. Nemmeno di quella pioggia che ora scende piano, a bagnarci il viso. Continui a fissare il cielo, non hai neanche cambiato espressione, nulla ti turba. Mi chiedo come fai. Io qui, con questo dolore tra le dita, e il freddo che arriva sulla pelle con la pioggia, non riesco nemmeno a respirare. Guardo le tue spalle non tremare e ti vedo lontano, così lontano da questo mondo che quasi mi spaventi. Eppure, non molto tempo fa, su quel prato tremavi. E' l'umido, dicevi, ma forse non era solo quello. Cosa ti rimane, dentro? Facevi finta prima? Io tremo. Per questo cielo che si fa scuro e per l'acqua  che si fa densa. Per questo ghiaccio che ora circonda i miei piedi e mi tiene ferma dove sono. Avrei voglia sai, di venire accanto a te e toccarti una spalla, distoglierti dal tuo sole che tramonta, suscitare in te una reazione. Ma non servirebbe a nulla. Tu sei là, io sono qua. Tu, che non mi guardi neppure, non ti accorgi di quel che mi succede. Io, che vedo solo le tue spalle, forse nemmeno io me ne accorgo.

"Perché non sa voler bene."


"Ma scusa, un tipo così, come tu l’hai descritto, che non vuol bene a nessuno, non fa mica tanta pena, sai? In fondo è colpa sua… che cosa pretende dagli altri?"
"Perché credi che io non lo sappia?"
"Io non capisco… incontra una ragazza che lo può far rinascere, che gli ridà vita, e lui la rifiuta?"
"Perché non ci crede più."
"Perché non sa voler bene…"
"Perché non è vero che una donna possa cambiare un uomo."
"Perché non sa voler bene."
"E perché soprattutto non mi va di raccontare un’altra storia bugiarda…"
"Perché non sa voler bene."

Scambierei i graffi con i fiori

Il mio cuore
          dorme
soprattutto
          non sperimenta l'illusione
    quella di dividere in parti eguali eguale
disparità di vedute.

  Dorme il mio cuore
soprattutto
non esita a inframezzare i suoi singhiozzi
     con altrettanti ritmati sbadigli

                          Dorme, forse
                          il mio cuore
                              offeso
                          da troppa indifferenza

                                                                                        [ed io in fondo
                                                                                                    lo capisco]

O forse
       il mio cuore
dorme 
       non da solo
il mio cuore
tra spazzatura cosmica
vuote lattine
         e fotografie rovinate

dorme
     
       come dormono 

                      tutte le cose
                                 
                                                                         dimenticate.


lunedì 22 luglio 2013

Desiderantur, desiderantur

l.
composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis 
riposa tenue Ellie e tu mio corpo tu infatti tenue Ellie eri il mio corpo 
immaginoso quasi conclusione di una estatica dialettica spirituale
-noi che riceviamo la qualità dai tempi 
tu e tu mio spazioso corpo ,
di flogisto che ti alzi e ti materializzi nell' idea del nuoto
sistematica costruzione in ferro filamentoso lamentoso
lacuna lievitata in compagnia di una tenace tematica
composta terra delle distensioni dialogiche insistenze intemperanti
le condizioni esterne è evidente esistono realmente queste
[condizioni
esistevano prima di noi ed esisteranno dopo di noi qui è il
[dibattimento
liberazioni frequenza e forza e agitazione potenziata e altro
aliquot lineae desiderantur
dove dormi cuore ritagliato
e incollato e illustrato con documentazioni viscerali dove soprattutto
vedete igienicamente nell'acqua antifermentativa ma fissati adesso
quelli i nani extratemporali i nani insomma o Ellie
nell' aria inquinata
in un costante cratere anatomico ellittico
perché ulteriormente diremo che non possono crescere
tu sempre la mia natura e rasserenata tu canzone metodologica
periferica introspezione dell'introversione forza centrifuga delimitata
Ellie tenue corpo di peccaminose escrescenze
che possiamo roteare
e rivolgere e odorare e adorare nel tempo
desiderantur (essi)
analizzatori e analizzatrici desiderantur (essi) personaggi anche
ed erotici e sofisticati
desiderantur desiderantur



Edoardo Sanguineti, Laborintus (1956)

.

Una volta ho preso una farfalla tra le mani e lei è rimasta lì. Non so se si fidasse o fosse solo stupida, so solo che sarebbe bastato un secondo per farla morire lì dov'era. Allora ho pensato che non conveniva essere farfalla.

domenica 14 luglio 2013

Cerchi

Guardo in uno specchio un'immagine sbiadita, la luce è bella quando accende colori e non acceca, mi sono fatta ombra e non è bastato, i miei occhi guardano dove non basta sentire.
Guardo...
Ci bastava un dito per toccare il cielo, non eravamo molto alti ma era il cielo a venire da noi, bastava alzare un dito, sì. Adesso con il mio dito tocco questo specchio e mi chiedo quando è stato che il vetro si è incrinato, forse abbiamo soffiato troppo per scacciare le nuvole e non ci siamo accorti di tutto quello che spostavamo.
Tocco...
Una goccia di sangue macchia il vetro e disegna cerchi, tutto è un cerchio, niente è una fine e niente è un inizio, niente chiede il permesso per esistere, niente ha un motivo e tutto è un motivo, i cerchi si sovrappongono ed io non li distinguo più, non c'è un inizio e non c'è una fine, disegno cerchi e i cerchi spariscono.
Disegno...
Ascolto tutto quello che arriva, la musica è un motivo ed ha un motivo che fischietto, non importa se morirò fischiando, non importa, morirò, fischiando. C'è sempre un modo per rinascere l'importante è morire con in bocca un motivo.
Ascolto...
Chiudo gli occhi e lascio che il mio fischio mi accompagni, chiudo gli occhi e come uno schermo le palpebre mi rimandano immagini che non vorrei mai, chiudo gli occhi e muoio quanto basta per rinascere, aspetto che accada, che il cielo mi arrivi sul dito, che il cerchio si chiuda.
Aspetto...


giovedì 11 luglio 2013

L'uomo che amava i libri

Tlin, tlin, tlin. 
Il suono.
Alzo lo sguardo, sfodero un sorriso e saluto con un gioviale « buongiorno! » . 
Mi alzo, gli vado incontro, lo accompagno, lo consiglio, lo servo e lo lascio al suo silenzio. Insomma, faccio il mio dovere. 
E’ una biblioteca grande, questa, abbastanza grande da aver bisogno dell’aiuto di un commesso, e tuttavia abbastanza piccola da conservare l’intima familiarità dell’ambiente conosciuto.

Tlin, tlin, tlin.

Il rumore della porta che si apre, mi annuncia sempre quando devo lavorare. E’ comodo, perché permette ai miei occhi di fare altro. Come leggere, ad esempio. 
Cosa volete che faccia, in una biblioteca? E’ l’unico aspetto positivo di questo lavoro: ho una quantità spropositata di libri a disposizione.
Altrimenti, sarebbe il lavoro più noioso del mondo: non posso parlare, perché disturberei il silenzio religioso che vi regna all’interno, devo ascoltare per ore i balbettii di gente che entra non sapendo neanche il nome del libro che deve cercare, devo guardarli mentre si frugano nelle tasche, alla ricerca del famigerato bigliettino su cui hanno scritto il titolo per non dimenticarlo. E che ovviamente hanno perso.
E quindi buttare tempo prezioso della mia vita nel cercare di capire quale diavolo di libro stiano cercando. 
La maggior parte delle persone che viene qui non lo fa per diletto. Spesso sono studenti costretti a leggere libri messi fuori commercio dai tempi della giovinezza dei loro professori, o professionisti che cercano informazioni su un aggiornamento, una ricerca, un seminario… Sono pochi, veramente pochi, quelli che vengono qui solamente per leggere.
Da quando lavoro qui, a dire la verità, soltanto uno. 
E’ lui, Il Lettore, come mi piace chiamarlo.
Viene tutti i giorni, la mattina presto, alle nove.

Tlin, tlin, tlin.

E non alzo lo sguardo sulla porta: lo alzo sull’orologio. Se sono le nove, so che è lui. 
Se sono le nove, ed è lui ad essere entrato, posso continuare a leggere – lui non chiede mai informazioni.
Entra, gira tra gli scaffali per qualche minuto, sceglie un libro, si siede e legge.
Legge tutto il giorno.
Non credo lavori. Se lavorasse non potrebbe stare qui tutti i giorni a leggere libri per tutto il giorno.
Forse è ricco – ma se fosse ricco che necessità avrebbe di venire in una biblioteca pubblica? Ne avrebbe una privata, grande, enorme, con quei libri rari. Sarebbe uno di quei filantropi che alla sua morte donerebbe i suoi libri ad una scuola, ad un ospedale, ad una biblioteca, magari più grande di questa… li rimetterebbe al servizio dell’umanità, insomma.
Sarebbe qualcosa del genere, se fosse ricco.
No, non penso sia ricco. Non ne ha l’atteggiamento.
Ma è un tipo strano, neanche mangia.

Tlin, tlin, tlin.

Alzo lo sguardo, perché non sono le nove. Un altro cliente. Si guarda intorno spaesato, confuso, ed io sospiro: un altro per il quale è probabilmente la prima volta che mette piede in una biblioteca.
« Buongiorno! » dico, e mi avvicino sfoderando il più accattivante dei miei sorrisi.
Quello mi squadra, chiedendosi per un attimo chi diavolo io sia. Decido di aiutarlo.
« Posso aiutarla, signore? » Attendo con pazienza che l’espressione attonita scompaia dal volto del mio cliente. Sembra capire: il volto gli si illumina, e si avvicina a me con fare cospiratorio, infilando una mano in tasca. Dio, un altro che non sa cosa gli serve…
« Dunque, mi servirebbe… » 
A tutti noi servirebbero molte cose, vorrei rispondere. Ma attendo educatamente che l’uomo riesca a decifrare la scrittura di, probabilmente, suo figlio.
Si infila frettolosamente gli occhiali da presbite sul naso adunco, aggrottando le sopracciglia ed allontanando lentamente il foglietto dagli occhi, quasi stesse osservando uno di quegli stereogrammi, quelle figure che se fissate a lungo sembrano uscire dal foglio.
« Dunque, mi servirebbe… » Lancio una breve occhiata all’orologio: tre minuti e 45 secondi, 46 secondi, 47 secondi…
« Mi servirebbe “Germi in aula” di un certo… Zola. Come il calciatore. » Alzo gli occhi al cielo, quasi sopraffatto dallo sconforto.
« Signore, forse intende Germinale, di Emile Zola. »
« Sì, penso di si. » Aggrotta ancora le sopracciglia, fissando il foglietto come se quello gli avesse tirato un brutto scherzo. Io le sopracciglia invece le alzo, trattenendo a stento un sorriso. Forse se ne accorge, perché mi guarda leggermente irritato.
« Serve altro? »
« Si… Il ricatto… il ri… Senta, legga lei. » dice, porgendomi stizzito il foglietto. Leggo. “Il ritratto di Dorian Gray, Oscar Wilde”. Fortunatamente non c’è nessun calciatore che io conosca che si chiami “Wilde”.
Mi inoltro nei corridoi, seguito a ruota dal Finanziere – ho la mania di dare soprannomi a tutti quelli che passano – e non riesco a trattenermi dal gettare uno sguardo frettoloso a Il Lettore, che sembra totalmente e beatamente ignaro della scena di degrado culturale che è appena avvenuta a pochi metri da lui.
Prendo i libri, uno dallo scaffale W ed uno dallo scaffale Z, e li porgo al Finanziere.
« Ecco qua, signore. Germinale di Emile Zola e Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. »
Penso che abbia percepito il mio tono di voce vagamente canzonatorio, perché mi guarda male ed il tono di voce è brusco quando mi lascia i suoi dati. Ah, beata mezza età.  Io, dopotutto, so essere davvero antipatico quando voglio.
Torno al mio posto che è quasi orario di chiusura. Il Lettore se ne è andato, come sempre, silenziosamente.


*

Sono le otto e mezza. Mezz’ora. 
Mezz’ora ed Il Lettore entrerà da quella porta, saluterà con un cenno del capo, sparirà tra gli scaffali per qualche minuto, tornerà, si siederà sulla solita poltrona e leggerà. Tutto il giorno.
Se non fosse che anche gli altri lo vedono, giurerei che sia solo una mia allucinazione. Una specie di amico immaginario, creato per tenermi compagnia… Ma anche L’Ordinatore lo vede.
« Eih, Ord! »
« Che c’è? E piantala di chiamarmi Ord, per l’amor del cielo! » Mi risponde L’Ordinatore, sistemando i nuovi arrivi sullo scaffale. Ignoro la sua ultima richiesta.
« Secondo te verrà anche oggi Il Lettore? »
L’Ordinatore sbuffa: pensa che la mia sia una specie di ossessione: forse ha ragione, ma lui non rimane qui tutto il giorno, non lo vede sedersi alle 9.10 e rialzarsi alle 19.15 – non ha idea di quanto possa essere inquietante una cosa del genere.
« Certo che verrà. Non hai notato che non manca un appuntamento? Secondo me è fuori di testa. »
Non rispondo. Fuori di testa o meno, secondo me è affascinante. Voglio dire, lui stesso sembra il personaggio di un libro, no? Magari semplicemente non può smettere di leggere perché…

Tlin, tlin, tlin.

Guardo l’orologio. Le 9.00. 
« Buongiorno! »
Un cenno con la testa, ed il lettore viene inghiottito dal labirinto di carta che lo circonda. Vorrei seguirlo, vedere su quali libri si sofferma il suo sguardo e con quale criterio sceglie poi quello che leggerà. Vorrei chiedergli se ha una famiglia, se mangia, se lavora di notte, se fa… qualcos’altro, oltre leggere. 
Ma non ho il coraggio. 
Primo perché da quando viene qui – ovvero almeno da quando ho iniziato a lavorarci io – non gli ho sentito dire una parola. Quasi mi dispiacerebbe rompere il suo silenzio.
Secondo, L’Ordinatore potrebbe avere ragione: potrebbe essere fuori di testa. Anzi, sicuramente lo è, ma non so se in senso buono o cattivo.
Il Lettore torna, in mano ha “Il vecchio e il mare” di Hemingway. 
Non ho mai finito un libro di Hemingway, io. Forse perché né la caccia, né la pesca, né la corrida, né l’alcol mi sono mai risultati argomenti particolarmente attraenti. Era lo scrittore preferito di mio nonno, invece. Lui, guarda caso, beveva, cacciava e andava a pesca. In effetti gli mancava solo la passione per la corrida, ma sono sicuro che se fosse nato in Spagna avrebbe avuto anche quella. 
Ad ogni modo anche Il Lettore sembra apprezzare. Quel che è certo è che divora pagina dopo pagina con una costanza invidiabile. Non lo vedo mai alzare lo sguardo dal libro, neanche per stiracchiarsi un attimo. Legge e gira pagina. Legge e gira pagina. Così, per ore.
In questa strana giornata di quiete, trovo il tempo per osservarlo: è un uomo dall’età indecifrabile, né troppo giovane né troppo vecchio.
Potrei dargli trent’anni, correggermi pochi secondi dopo e dargliene cinquanta per poi pensare che forse in realtà sono quaranta.
Indossa un completo da uomo, grigio, modesto, poco vistoso, estremamente normale. Il viso, anche quello, è normale. Un uomo assolutamente ordinario, se non fosse per le sue abitudini.

Tlin, tlin, tlin.

Guardo la porta: una bella ragazza, finalmente!
« Mi scusi, è questo il sexy shop? »
Non rispondo e mi limito ad allargare le braccia, cercando di ignorare la cocente delusione che è divampata nel mio petto. La ragazza si guarda intorno, modella le labbra in un “oh” di sorpresa, ed esce.
Mi volto verso Il Lettore. Niente. Neanche un sorriso. Totalmente immerso nel suo libro.
Alle 19.15, Il Lettore, chiude L’uomo e il mare e se ne va.


*

« Ma che ti prende, oggi? » 
L’Adescatrice mi guarda sconcertata, senza capire la mia agitazione. E’ circa mezz’ora che guardo continuamente l’orologio, affacciandomi di quando in quando alla porta che dà sulla strada.
Sono le 9.30, ed Il Lettore non è ancora arrivato.
« Non arriva. » Le dico.
« Ma chi? »
« Il Lettore, quello che arriva alle nove e se ne va un quarto d’ora prima della chiusura. Quello che rimane qui tutto il giorno. » dico, tornando a guardare fuori dalla porta. Niente.
« E allora? »
« E allora è quasi un anno che lavoro qui e non è mai mancato. Perché non arriva? »
L’Adescatrice mi guarda con uno dei suoi sorrisi maliziosi, causa del suo soprannome.
« Sei gay, forse? Sei innamorato di Ludwig. »
« Di chi? » chiedo distrattamente.
« Cielo, sei innamorato e neanche conosci il suo nome? »
« Non sono gay. » smentisco, « Si chiama Ludwig? Come fai a saperlo? »
Altro sorriso malizioso.
« Gliel’ho chiesto… Era così… misteriosamente affascinante. Bah, vedrai che tornerà. Io vado, torno dopo pranzo. »
La saluto distrattamente, fissando la poltrona sulla quale dovrebbe essere seduto Ludwig.
Mi appare stranamente incompleta.


*

Non è arrivato neanche oggi. Sono tre giorni che non si fa vedere e questa biblioteca sta perdendo per me ogni attrattiva.
Non alzo più la testa al suono della porta che si apre. Aspetto che siano i clienti a chiedere il mio aiuto.
E’ un atteggiamento sciocco, lo so, terribilmente infantile. Ma mi sembra che senza Il Lettore questa biblioteca abbia perso la sua aura magica: ora è solo una biblioteca come le altre e l’odore di stantio mi colpisce più forte che mai.


*

Sabato. L’ultima volta che ha varcato quella soglia è stato Sabato, esattamente una settimana fa.
L’Ordinatore mi guarda e scuote la testa.
« Magari ha trovato qualcosa di meglio da fare. Magari ha trovato una donna… » dice, dandomi una pacca sulla spalla. Lo sento sogghignare, so che credono tutti che io stia esagerando.
« Non smetterebbe di leggere per una donna. » dico, totalmente sconfortato.
L’Ordinatore mi guarda, tra lo scettico e il preoccupato.
« Dici? Tu cosa preferiresti, Ric, farti la tua donna o leggere? »
Ric. Mi ha chiamato Ric. Il Ricevitore, sarebbe. Gli sorrido.
« Cosa c’entra, Ord. Io mangiavo anche. Lui no. »
« Ma cosa ne sai! Faceva colazione prima di arrivare e cenava quando tornava a casa. Semplicemente non pranzava. Non conosci nessun altro che salta spesso il pranzo? »
« Non per leggere. »
« Amico, sei pazzo. Dai retta a me, lascia perdere questa storia e ricomincia a fare il tuo lavoro di Ricevitore, che ti riesce bene. »
« A lui non serviva, un Ricevitore. Sapeva sempre dove andare. »
L’Ordinatore scuote la testa, rassegnato, e torna a sistemare i nuovi arrivi. Per un po’ cala il silenzio, all’interno della biblioteca. 
Quel silenzio che dovrebbe esserci sempre e che noi, troppo spesso, rompiamo.
Domani sarà Domenica, giorno di riposo, finalmente. Credo che presto darò le mie dimissioni. Andrò a fare il gelataio. Probabilmente lì nessuno chiamerà mai la “fragola” “fregola” o il “limone” “piumone”. Non dovrò far finta di non accorgermi delle bestialità che spara la gente.
Vorrei cercarlo, in realtà. Sapere che fine ha fatto. Ma non so nulla di lui, a parte un nome improbabile ed una descrizione che riuscirebbe alquanto incerta. “Un uomo normale, vestito normalmente, più o meno tra i trenta e i cinquant’anni.”
Capireste di chi sto parlando, voi?


*
Tlin, tlin, tlin.
Non alzo lo sguardo e aspetto l’ormai consueto “mi scusi?” di qualche povero sprovveduto. E’ Lunedì e penso che sarà il mio ultimo giorno di lavoro, in questo posto.
Aspetto, ma non sento nessun “mi scusi?”.
Mi guardo intorno e non vedo nessuno.
Guardo l’orologio, e per poco non svengo.
Sono le 9.00. Spaccate, precise al millimetro. So già che alle 9.10 Ludwig spunterà da quel corridoio e si siederà su quella poltrona. Rimango in attesa, i nervi tesi fino allo spasimo, cosciente che potrei anche avere una delle più grandi delusioni della mia vita.
Ma no, il fato è magnanimo. Ludwig spunta dal corridoio e si siede sulla poltrona, tra le mani “L’amore ai tempi del colera” di Gabriel Garcia Marquez.
No, no, no. Non posso lasciarla passare così, questa.
Mi alzo.
« Mi scusi se la disturbo, signore… » La voce mi esce flebile, impacciata. Mi accorgo che sto arrossendo come un cretino. Ludwig alza lo sguardo su di me, e mi accorgo per la prima volta che i suoi occhi sono di un limpido azzurro cielo. Mi rivolge un sorriso sereno, stirando le sue labbra fine.
« Nessun disturbo, mi dica pure. » Ha una voce comune, lui. Normale. E’ gentile, modulata, quasi carezzevole. Un modo di parlare accorto ed educato, così fuori moda in questa epoca. Nessun accento, nessuna inflessione. 
« Lei… lei sta bene? » Ma che razza di domanda idiota! Devo essermi bevuto il cervello. Il Lettore, tuttavia, sembra capire – non risponde, ma mi guarda a lungo. Sospira, e chiude il libro. Mi rivolge uno strano sorriso consapevole.
« Si è chiesto che fine avessi fatto, non è vero? »
Annuisco, lentamente. Lascio intendere che mi piacerebbe, effettivamente, saperlo.
« La mia è una storia singolare: potrebbe non crederci, darmi del pazzo. Come faccio a sapere se posso fidarmi di lei? »
« Io adoro le storie singolari. »
Devo averlo detto in modo convincente, perché è il turno di Ludwig, di annuire.
« Lei perché legge, signor Catcher? »
Non gli chiedo come fa a sapere il mio nome, mi limito a rispondere.
« Perché… è un po’ come fuggire dalla realtà. Quando leggo entro in un’altra dimensione, non penso a… quello che mi aspetta, al futuro, ai problemi. Vivo la storia che leggo. »
Mi sembra quasi di essere tornato a scuola. Ho paura di dare la risposta sbagliata – ho paura perché penso che se do la risposta sbagliata, Ludwig non mi racconterà la sua storia.
Lui, tuttavia, annuisce.
« Io, signor Catcher, non ricordo un momento della mia vita in cui non ho letto. Il mio primo ricordo è il mio primo libro. La mia vita non è stata altro che un continuo succedersi di avventure non mie, un continuo cambiare personalità, passioni, ideali, io, in poche parole, non sono altro che un mucchio di personaggi. »
Lo guardo senza capire. Ha passato la sua vita a leggere?
« Sono, in qualche modo, costretto dalla mia stessa natura a leggere. I libri sono per me quella che è per voi la realtà. Qualcosa che accade tutti i giorni, qualcosa che permea la mia vita. 
Non c’è evasione se si è costantemente intrappolati in qualcosa. »
Lo guardo a bocca aperta. Poi, finalmente, riesco a dire qualcosa.
« Ma… allora, la settimana che non è venuto… »
« Quella è stata la mia evasione. Una settimana all’anno smetto di leggere e vivo la mia vita, la vita di Ludwig. Non la vita di Zeno Cosini, non la vita di Aureliano Buendìa, né quella di Julien Sorèl, ma semplicemente la vita di Ludwig Bookman. 
Quella settimana è la mia evasione, il corrispettivo del suo libro, signor Catcher. »
Mi gratto la guancia, riflettendo sulle sue parole. Mi sorge, spontanea, un’obiezione.
« Ma è assurdo, voglio dire… Io posso decidere quando voglio leggere. Posso terminare anche in questo momento la nostra conversazione ed iniziare a leggere. Non leggo un libro l’anno, ne leggo molti di più… Perché lei può vivere solo una settimana?»
Il sorriso che mi rivolge, mi lascia un po’ stupito. E’ un sorriso estremamente compassionevole, me ne accorgo subito.
«Ah, signor Catcher…  Un giorno le racconterò di più. Vedrà, sarà una storia che le piacerà. Le piacerà tanto che avrà voglia di scriverci su un libro.»

Riabbassa lo sguardo sulle pagine, Ludwig. Io non esisto più. Ora, tra le parole, vive.


lunedì 8 luglio 2013

Nicolas Cabos

Quasi

Oggi c’era quasi il sole, sono quasi arrivata a lezione in orario, ho capito quasi tutto. Quasi mi levavano la patente, ma me la son cavata quasi senza danno. Oggi ero quasi senza soldi, quasi di cattivo umore, in certi momenti quasi allegra. La strada era quasi libera, e il parcheggio l’ho trovato quasi subito. Ho sentito quasi freddo all’aperto e quasi caldo al chiuso, quasi mi andava di spogliarmi e girare nuda, in certi momenti. La mia concentrazione era quasi giusta, i miei pensieri quasi controllati, i miei movimenti quasi lenti. Quasi un po’ mi trascinavo. Quasi ho studiato, quasi ho mangiato. Quasi le parole si incrociavano, oggi, ma le ho districate quasi al momento giusto. Oggi un amico mi ha quasi abbracciato, ma poi ci ha ripensato, ed io quasi gli ho chiesto perché. Poi ci ho ripensato. Ogni canzone che ascolto, oggi, è quasi mia,ogni libro che apro, oggi, quasi mi piace. Guardo il cielo ed è quasi blu, quasi nero, quasi giallo, i lampioni sono quasi tutti accessi, fuori, la mia stanza è quasi in ordine, dentro. Gli alberi sono quasi spogli, quasi gialli, quasi rossi, quasi verdi. Oggi sono quasi io, quasi qualcun altro. Oggi quasi non è oggi, potrebbe essere domani o ieri, non ha quasi importanza che giorno sia, è quasi un giorno come un altro, quasi uguale a tutti gli altri, oggi è quasi, così quasi che quasi non ha più senso, come oggi non ha più senso, una parola ripetuta a lungo non ha più senso, un giorno ripetuto a lungo non ha più senso. Ha quasi senso.

domenica 7 luglio 2013

Nuvola Express

Potrei viaggiare su una nuvola e forse mi terrebbe, sono leggera, più dei miei pensieri. Cercherei la nuvola più alta e avrei sempre il sole, le lacrime si asciugherebbero ancor prima di cadere e il sorriso splenderebbe tanto da accecare tutti gli shuttle in partenza verso lo spazio, e forse lo farei apposta. Io e la nuvola saremmo una cosa sola e viaggeremmo insieme, andremmo veloci, e lei mi porterebbe dove voglio andare e sarebbe l'unico luogo dove potrei scendere felice, chiuderei gli occhi e poi sarebbe tutto e nulla, passato e presente, tutto sarebbe insieme e ogni cosa divisa, non ci sarebbero limiti né barriere. Muovendomi un poco avanti, quel tanto che basta per sentirmi libera, lasciando un istante i pensieri, scalando dolori, vincendo paure, avvertire un argine cedere ed avere paura e dimenticarlo, scoprire, capire, conoscere, cose che non sono cose e forse non esistono, vedere i suoi occhi e sapere cosa non so, e forse cosa non sa, cosa non sappiamo, io amo, amo salire le scale dentro di me, uscire da me fino a non essere me e ed esserlo ancora di più, e amo, amo sapere che quello che vedo, che sento, che vivo è la sua impronta dentro di me, spinta e innesco, ora non esisterebbe moto, in me, se non fosse per lui. Non ho una nuvola a portarmi dove voglio e non è sempre sereno, ma "il sereno è la più diffusa delle nubi" ed io sono d'accordo, forse me ne convinco solamente, ma in fondo quello che mi importa è quello che trovo quando arrivo, che stia scendendo da una macchina, da un treno o da una nuvola. E troverei le sue braccia, i suoi occhi e il suo sorriso. E forse sulla nuvola potrei salirci davvero.

C'ero tre volte.


C'era una volta, ma forse una volta non si sapeva. Forse erano due volte, o tre volte fa, C'era tre volte ed era un principe.
C'era tre volte era il suo nome, il nome del principe, una volta indossava un'armatura rossa, una volta un'armatura nera, una volta un'armatura blu. In tutto fanno tre volte e lo chiamavano C'era tre volte.
Quando indossava l'armatura rossa C'era tre volte si appassionava, inginocchiato sulla terra bagnata C'era tre volte ascoltava la luna, ogni tanto piangeva, poi giurava, poi amava, poi voleva, C'era tre volte voleva la luna.
Quando indossava l'armatura nera C'era tre volte diventava cattivo, a cavallo di un drago C'era tre volte scoppiava il sole per togliere luce alla luna, C'era tre volte inveiva, gridava, poi s'infilzava, c'era tre volte voleva la luna e l'ammazzava.
Quando indossava l'armatura blu C'era tre volte si nascondeva tra le onde del mare, fermo si lasciava cullare, C'era tre volte non c'era più, lui lo sapeva, andava giù, i raggi del sole non lo colpivano e lui scuro arruginiva. 
C'era una volta C'era tre volte, le sue armature splendevano, anche quella nera splendeva, la principessa sulla torre rimaneva abbagliata, C'era tre volte le tese una scala.
C'era tre volte era un principe, forse un cavaliere, forse un principe cavaliere ma anche un garzone, C'era tre volte e una volta era un principe, una volta un cavaliere una volta un garzone.
C'era tre volte aveva un foglio, su quel foglio ogni volta di tre scriveva una poesia, ogni poesia aveva tre righe, ogni riga tre parole, ogni parola aveva tre lettere, C'era tre volte scriveva tre volte al dì, ogni volta di tre.
C'era tre volte spezzò la sua penna, tagliò le ali al drago, distrusse la torre, scoppiò il sole, frantumò la luna, prosciugò il mare, poi si ammazzò. Tre volte.
Tre giorni dopo C'era tre volte risorse tre volte. 
"C'ero tre volte", si disse, "e tutte e tre ero sbagliato."


Di fiori e di mare


C'è chi usa gli spaghetti per allacciarsi le scarpe, chi un libro per ammazzare zanzare, chi una bandiera per apparecchiare, chi un cuscino per lottare, chi una luce per accecare.
Ho usato parole per non parlare e silenzi per comunicare, sorrisi per mascherare e mani per esplorare, la mia lingua spesso ha toccato e i miei occhi ancor più spesso non hanno guardato. Ho preso una penna un giorno e lei non ha scritto, l'inchiostro ha macchiato di niente i vestiti. E' stato un attimo e l'aria fredda scaldava, un fiore mi ha detto: è bella la pelle quando si increspa, è il mare che chiama.
Hai preso un aereo e spiegate le vele sull'ala siamo salpati, il vento rideva, noi ridevamo, il fiore rideva, tante risate smuovevano l'aria.Hai presente quando il silenzio cala improvviso? E' stato un tuo dito, posato leggero sul viso. La pelle che si era acquietata ha di nuovo tremato.
Il fiore ha sorriso e mi ha detto: il mare è difficile trovarlo nel mare, cercatelo dentro, cercatelo in voi.
Con un cenno d'intesa ha portato via tutti, l'aereo, il vento e il mare.Io e te, i vestiti macchiati di niente e la pelle increspata. Un sorriso che non mascherava e un silenzio coperto di voglia.
Le dita affondate nel mare, la lingua a leccare il sale, perfino negli occhi un poco di acqua l'abbiamo trovata. Strappato da dentro il mare sembrava infinito, l'abbiamo domato, sfinito e lui ogni volta è rinato.
Bagnati e quasi annegati, arresi e infine sospinti.
Onde schiantate e scogli scavati, di moto marino ci siamo abbracciati.
Io senza dirlo ho amato quel fiore.
Tu in un sussurro mi hai detto: quel fiore ero io.


venerdì 5 luglio 2013

Corro, volo e non tocco mai terra


A volte corro senza fermarmi mai, cammino sull'acqua e scivolo sulle montagne, abbiamo visto tante lune nelle nostre notti e tante lune ci hanno sorriso, una in particolare ci ha fatto ciao. Corro e non importa dove, importa che i miei piedi non tocchino mai terra perché la terra ci trattiene, a volte corro e sorvolo le stelle, le mie ali sporche di sangue e di fortuna trovano la strada per non trovarti mai. Chiudo gli occhi e la luna mi attraversa, sento i tuoi sogni nei miei pensieri e penso che è una bella musica quella che suoni perché parla di me, e penso che è una bella musica quella che suoni perché parla di una luna che sorride e di un buco che non ci inghiottirà mai. A volte le parole salvano il mondo, a volte salvano una vita, a volte salvano cose che nessuno vede ma che tutti sanno, l'equilibrio si impara è vero ma io soffro di vertigini, sulle mie dita allora bilancio parole, emozioni, sospiri, tante volte sono caduta, ma le mie ali sporche di sangue e di fortuna trovano la strada per non morire mai. So cosa vuol dire vivere senza toccare mai terra, non è facile restare in aria perché la terra ci trattiene, tutti vogliamo un pezzo di terra, tutti abbiamo bisogno di posarci, io corro e volo e non tocco terra, tu mi segui con lo sguardo e lo so, non volerai, ma non fa niente, posso scendere giù quel tanto che basta per baciarti il naso e dirti che la luna ci sorride.